Matteo Collura, lo scrittore in punta di penna
Scrittore, giornalista o come si definisce lui, semplicemente un artista. Matteo Collura, originario di Agrigento e milanese di adozione, classe 1945, collabora oggi con il Corriere della Sera e Il Messaggero. Narratore della Sicilia e di siciliani illustri come Leonardo Sciascia, si è raccontato a Sicilian Secrets.
Una passeggiata letteraria fatta di ricordi, di esperienze, di frammenti di vita. Di Sicilia. Con Matteo Collura abbiamo ripercorso la sua storia personale che inevitabilmente passa attraverso la sua carriera di scrittore e giornalista. E ancora il legame con la sua terra, i traguardi raggiunti, l’amicizia con Leonardo Sciascia. Una chiacchierata tutta da leggere.
Io mi considero un artista. Un artista non è solo chi fa il pittore o lo scultore, chiunque può esserlo. È un modo di intendere la vita.
D: Cosa l’ha spinta ad avvicinarsi al mondo della scrittura e del giornalismo?
R: Nonostante i miei studi fossero di tipo artistico, mi accorsi che ero più bravo a scrivere che a dipingere e che la scrittura mi soddisfaceva come se avessi il pennello in mano. Non fu un distacco doloroso, alla fine scrivere e dipingere erano due attività che nel mio caso si sovrapponevano. Questo si evince non soltanto dalla mia narrativa ma anche dalla saggistica dove c’è una grande attenzione nella descrizione dei paesaggi, proprio quella tipica di un pittore. Come giornalista iniziai invece ad Agrigento al Giornale di Sicilia, poi mi spostai a Palermo. Passai a L’Ora per qualche tempo fino a quando nel 1978 andai via e approdai al Corriere della Sera a Milano.
D: Le sue opere sono intrise di Sicilia e sicilianità. Qual è il suo legame con – per citare una sua opera – quest’isola senza ponte?
R: Non mi piace il termine sicilianità, siamo cittadini del mondo: cadiamo per caso dove siamo nati. Macondo, la città immaginaria descritta nel romanzo di Gabriel García Márquez, Cent’anni di solitudine, rappresenta tutti i sud del mondo, ci ritrovo anche il mio quartiere povero di Agrigento. Se io sono nato in Sicilia non posso che essere il giornalista che sono, l’essere siciliano mi ha condizionato.
D: Poco più che trentenne si trasferisce a Milano e inizia a lavorare al Corriere della Sera: com’è cambiato il suo rapporto con la Sicilia? Cito testualmente: per Matteo Collura ogni abbandono è il pretesto per un continuo ritorno.
R: Arrivando a Milano e abitandoci stabilmente ho potuto guardare la Sicilia dalla giusta lontananza per poterla giudicare. Quando ci si vive molte cose sfuggono, anche i difetti. È come il binocolo rovesciato, si vede piccolo ma molto nitido. La distanza dà modo di parlare meglio del luogo in cui si nasce. Quello che Borges definisce la scienza certa, quella del posto da cui proveniamo. Quando scrissi In Sicilia e tutta la trilogia qualcuno vi riscontrò una visione pessimistica. Per me è come se baciassi la Sicilia ma tenessi gli occhi aperti. La mia isola è una sirena e io la guardo legato come Ulisse.
D: Secondo Matteo Collura, qual è la grossa differenza tra il mestiere di scrittore e quello di giornalista? In cosa invece coincidono?
R: Sono due mestieri che non coincidono o che forse coincidevano solo nelle pagine culturali dei giornali dove soprattutto tempo fa vi era ancora il gusto del bel scrivere. Quello del giornalismo è uno stile veloce e sintetico. Si butta giù qualcosa senza ispirazione, si fa capo a un’esperienza fatta, vista o riferita. Nel lavoro di scrittore invece, ci si affida alla visionarietà, si ha un altro passo, un procedere diverso che viene fuori da una riflessione lunga, meditata. Ci si permette il lusso di cercare la musicalità nelle parole, cosa che difficilmente un cronista può concedersi.
D: L’amicizia con Leonardo Sciascia e il suo lavoro di biografo. C’è qualche aneddoto che ricorda con piacere?
R: Ce ne sarebbero diversi! Uno che mi sovviene riguarda Parigi, dove negli anni ’70 siamo andati insieme diverse volte. Capitò che restammo lì più del solito, io abitavo in un alberghetto vicino Place d’Italie e lui stava in un hotel vicino l’Étoile. Ci vedevamo la mattina, facevamo una passeggiata e prendevamo un caffè sugli Champs-Elysées. Lui era preoccupato perché non sapeva dove fosse il mio hotel, così dopo qualche giorno, quando andai a prenderlo, mi disse che aveva prenotato una camera per me nel suo stesso albergo. Si prendeva cura degli amici come fossero fratelli. Era affettuoso, dal fare molto semplice. Alla mano. È la dimostrazione che più si è grandi e meno c’è da mostrare. Avere conosciuto Leonardo Sciascia è stato un destino, se sono quello che sono lo devo a lui. Crescere con un amico così ti cambia la vita.
Per me è come se baciassi la Sicilia ma tenessi gli occhi aperti. La mia isola è una sirena e io la guardo legato come Ulisse.
D: Cosa rende la Sicilia un luogo unico nel suo genere?
R: È una specie di ombelico del mondo, una terra di frontiera e la frontiera ha sempre avuto fascino. La Sicilia è il far west europeo: il Gattopardo, la pericolosità della mafia, questa insularità che si traduce in marginalità lontana dal centro di potere.
D: Tanti traguardi raggiunti, c’è qualche altra opera già in cantiere o qualche ambizione per il futuro?
R: Ho ripubblicato una nuova edizione de Il Maestro di Regalpetra con La nave di Teseo, l’editore più adatto a ricordare Sciascia. Di scrivere nuovi libri non ne ho alcuna voglia, in fondo le persone leggono sempre meno, ci si esprime diversamente. Come diceva Gesualdo Bufalino, l’essere anziani porta dei vantaggi, uno di questi è coltivare dei pregiudizi.
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