Morire di toga

Serafino Famà (Fonte brogi.it)
Serafino Famà (Fonte brogi.it)

 

Serafino Famà, a vent’anni dal suo assassinio, raccontato dalla figlia Flavia

Era giovedì 9 novembre 1995 e proprio mentre, sulla terza rete RAI a “Temporeale”, si discuteva animatamente circa la legittimità o meno del ruolo dei pentiti, il dibattito in studio venne interrotto da un comunicato dell’ANSA con il quale cominciò a girare la notizia che, poco più di mezz’ora prima (si dirà, poi, che a quell’ora, neppure la famiglia dell’ucciso era a conoscenza dell’accaduto) ed in pieno centro a Catania, era stato assassinato un notissimo avvocato penalista catanese, Serafino Famà, difensore di boss del calibro di Piddu Madonia.

Un comunicato scarno perchè poche le notizie, in quel momento, in mano ai giornalisti.

Ricordo che, quella sera…a quella notizia…mi girai raggelata a guardare mia madre.

Un senso di smarrimento che non abbisognò di parole.

Lo stupore, l’incredulità vennero racchiusi in quell’unico sguardo che, poi, con il passare dei minuti…delle ore…si concentrò nella ricerca di notizie, di conferme.

Chi fosse Serafino Famà, a Catania lo sapevamo tutti…al di là della personale conoscenza e, in quei momenti, il suo nome richiamava alla nostra mente la fisicità di un uomo alto…apparentemente burbero…di quelli che, spesso, definiamo “tutti di un pezzo”: pochi fronzoli e tanta sostanza.

Da quell’istante, fu un rimbalzare di notizie laddove, sui canali nazionali, venivano fornite notizie atte a presentare l’accaduto…l’uccisione di un uomo…il barbaro assassinio di un professionista, un fatto spettacolare.

Catania, come spesso avveniva ed avviene, venne dipinta come una città omertosa dal momento che le notizie parlavano di un agguato in pieno centro, in un orario di punta tra una folla di persone che non erano intervenute. Ancora una volta, la città…la nostra, veniva raccontata secondo clichè e noi abbiamo lasciato che, ancora una volta, qualcun altro ci raccontasse.

La verità, quella oggettiva…l’unica, era che l’avvocato Famà era stato assassinato vigliaccamente senza che nessuno, tranne il testimone oculare, potesse vedere o sentire nulla.

Ha concluso i suoi giorni riverso su un terreno sciaroso, segno che la vita umana, già allora, non aveva alcun valore. A Catania come a Milano.

Perdonatemi la lunga introduzione, ma l’emozione di quella sera è presente in me viva e forte a distanza di vent’anni esatti. Tanti saranno, infatti, il prossimo 9 novembre.

Ma è di Serafino Famà che voglio parlare oggi, per ricordarlo a chi l’ha conosciuto e raccontarlo a chi ne ha solo sentito parlare perchè tanti sono gli insegnamenti che ci lascia la motivazione con cui sono stati condannati i mandanti e gli esecutori del suo vile omicidio, tanti…dicevo… in termini di riflessione: “L’avvocato Famà è stato assassinato per aver svolto con coscienza e professionalità la propria professione!”

Così semplicemente.

Chapeau, verrebbe da dire e lo dico convinta.

Ma che uomo era Serafino Famà, prima ancora di essere un ottimo avvocato, e perchè venne ucciso?

Nato a Misterbianco nel 1938, mai si era sottratto alla fatica del lavoro nella fornace di famiglia alternando lo studio alle incombenze familiari.

Laureatosi in Giurisprudenza a Catania, aveva cominciato con il fare pratica presso lo studio dell’avvocato Enzo Trantino, di cui fu il primo sostituto, e questo fino al momento di farne nascere uno proprio, sito a due passi dal luogo dell’agguato.

Quella sera, appena cinquantasettenne, esce dal proprio studio in compagnia del collega Michele Ragonese e, all’angolo tra Viale Raffaello Sanzio e Via Oliveto Scammacca, la sua vita viene stroncata da 6 colpi di una calibro 765.

Erano da poco passate le 21.00.

Una forsennata corsa in autombulanza non gli salva la vita e 20 minuti dopo è già cadavere al Pronto soccorso dell’Ospedale “Garibaldi” di Catania.

A distanza di un anno e mezzo, e grazie alla rivelazioni del pentito Alfio Giuffrida, affiliato del clan Laudani, si venne a delineare il quadro che aveva portato alla scellerata decisione di “eliminare” il professionista.

Si seppe che il mandante era stato il boss Giuseppe Di Giacomo, reggente lo stesso clan del pentito. Il motivo?

Qualche tempo prima, il boss era stato arrestato mentre si trovava a letto con tale Stella Corrado, moglie del cognato Matteo Di Mauro. Tale episodio, e la conclamata infedeltà dei due, aveva avuto forti e destabilizzanti ripercussioni all’interno del clan tanto da spingere il Di Giacomo a programmare l’assassinio dell’ex amante, sfumato per l’arresto dello stesso boss.

A quel punto, coinvolto in un processo a carico del Di Mauro, il Di Giacomo aveva sperato di essere scagionato dalle accuse proprio grazie alle dichiarazioni della Corrado che, invece…consigliata dal Famà, si era astenuta da qualsiasi dichiarazione perchè imputata in procedimenti connessi ed in quanto parente di imputati nel processo.

Da qui, secondo il boss, la sua mancata scarcerazione.

Fu quella convinzione che portò alla sentenza di condanna a morte del penalista catanese.

A fine iter processuale per l’assassinio di Famà, vennero applicati ergastoli per mandanti ed esecutori ed una condanna a 18 anni di reclusione per il pentito Giuffrida.

Questa, per completezza d’informazione, la cronaca dei fatti.

Ora è di lui che voglio parlare, come dicevo e, per fare ciò, chiedo aiuto alla figlia Flavia.

L'avvocato Famà con la figlia Flavia
L’avvocato Famà con la figlia Flavia

Laureata in giurisprudenza ed abilitata alla professione forense di fatto, ad oggi, è dipendente pubblico.

Mi confessa da subito che non sa ancora se, mai, si dedicherà alla carriera che fu di suo padre ma, intanto, si perfeziona e mi rivela, orgogliosa, di aver seguito un Corso di perfezionamento sugli “Scenari internazionali della criminalità” organizzato dalla Statale di Milano e che, attualmente, è impegnata con un Master in “Tutela internazionale dei diritti umani” a La Sapienza di Roma.

L’altro figlio dell’avvocato Famà, Fabrizio…quarantenne, lascia alla sorella la libertà di parlarmi del padre senza voler aggiungere altro a ciò che mi dirà Flavia ma “sposandolo” in toto.

Flavia, tredici anni…tanti ne avevi quando Tuo padre venne assassinato…sono troppo pochi per capire l’entità di quello che Ti succedeva…come sei riuscita a venirne fuori sempre che Tu ci sia riuscita?

Si, decisamente troppo pochi per essere catapultata nel mondo degli adulti, soprattutto in questo tipo di mondo e con tale violenza.

Come sono riuscita a venirne fuori? Beh…bella domanda…dipende da cosa s’intenda!

Non passa giorno che non pensi a mio padre, a quali consigli o rimproveri, mi rivolgerebbe. A come sarebbe la vita adesso se lui fosse qui, in carne ed ossa.

Da questa sensazione non credo che ne verrò mai fuori ma è necessario andare avanti e ricostruire la vita che altri hanno incrinato.

Bisogna rimboccarsi le maniche.

Sai cosa si dice sui giapponesi? Che, quando riparano un oggetto rotto, valorizzino la crepa riempiendo la spaccatura con dell’oro, cercando di dare valore alla ferita.

Per i primi dieci anni, non ne volevo parlare. Volevo solo dimenticare.

Credevo che il mio fosse un dolore che nessuno poteva capire…che parlarne non sarebbe servito e mi chiedevo a chi potesse interessare.

Poi, il mio cammino si è incrociato con quello di “Libera”, l’associazione fondata da Don Luigi Ciotti che ringrazierò, sempre, per avermi ridato la speranza.

Ho sentito che era fondamentale far conoscere la storia di chi è stato ucciso per consegnare a noi un mondo migliore e…mi sono sentita accolta, capita. E, così, a quattro anni da quell’incontro, ho iniziato a far parte, in modo attivo, della stessa associazione.

Flavia…prova a raccontarci, anche attraverso qualche aneddoto, com’era Tuo padre…Tante le cose dette ma, probabilmente, poche per capire che uomo era…

Mio padre era allegro e pieno di vita.

Amava cantare e si divertiva ad imitare Celentano, anche nelle movenze da molleggiato.

Gli piaceva raccontare barzellette e giocare a calcio. Ogni settimana, organizzava le partite tra colleghi e, proprio quella sera…la sera dell’agguato…stava cercando le maglie per la partita del sabato successivo.

Oltre ad amare la professione (quando ne parlava, diceva sempre “Io non faccio l’avvocato. Io SONO avvocato!”), era un padre attento e presente con il quale parlavo di tutto.

Quando la sera rientrava dal lavoro, si sedeva accanto a me e mi chiedeva della scuola. Controllava i miei compiti e mi incoraggiava sempre.

Trovava, poi, sempre il tempo sia per venire a vedere i miei allenamenti di pallavolo che per portarmi in giro per negozi. Mi divertivo a vedere come aggrottava la fronte quando provavo un vestito o una gonna che lui definiva sempre “Troppo corte!”

Flavia, rispetto alla frase che spesso gli viene attribuita “Chi fa il proprio dovere non deve temere nulla”, in considerazione di ciò che è accaduto…come Ti poni? Quale il tuo sentire?

“Se ti comporti con onestà e coraggio, non devi avere paura di nulla”…ricordo che me lo disse quando gli chiesi se gli avrebbero dato la scorta. Non so perchè ma…ero preoccupata, in quel periodo, e percepivo una sorta di pericolo.

In questo Paese, chi fa il proprio dovere è spesso a rischio, sotto tanti punti di vista. Questo, però, non deve distoglierci dal comportarci con onestà e coraggio. Anzi, deve darci la spinta e la voglia di impegnarci ancora di più. Anche per sostenere chi è più svantaggiato di noi.

Quanto ha inciso essere figlia di Serafino Famà, nella volontà di seguirne l’amore per gli studi giuridici e l’impegno civile? Un modo per perpetuare una tradizione familiare o di perfezionare un cammino intrapreso da Lui?

Beh…considera che mio padre non voleva, assolutamente, che studiassi Giurisprudenza ma, certamente…è vero: essere sua figlia ha inciso sotto molteplici aspetti.

Ho scelto di andarmene da Catania e di studiare fuori anche per questo: sembrerà strano o folle, ma volevo essere un numero di matricola qualsiasi ed essere valutata come Flavia, non come figlia di Serafino.

Credo di aver davvero capito e, provato, quella passione che contraddistingueva mio padre quando studiai Procedura penale per l’abilitazione alla professione. Poi, ognuno…però…ha il proprio cammino da percorrere ed io sto cercando di costruire il mio.

Catania, rispetto, all’assassinio di Tuo padre in che termini si è pronunciata? Insomma, l’hai sentita vicina nel ricordo oppure pensi che l’abbia dimenticato ?

Ci sono state fasi alterne.

Ricordo che, un mese dopo l’agguato…quando ancora si brancolava nel buio…il Comune pose una targa, in sua memoria, con su la scritta “Qui, barbaramente ucciso per mano mafiosa”. Una forte presa di posizione che ho, sempre, apprezzato.

Qualche tempo dopo, la targa venne rubata e c’è voluto un po’ prima che venisse ripristinata. E ciò avvenne solo perchè feci sapere che l’avrei fatto per conto mio, a spese mie.

Alcuni amici e colleghi di mio padre li ho sempre sentiti vicini. Dal primo istante. Altri mai!

Credo sia anche normale, comunque.

Ci sono stati, poi, anche episodi spiacevoli come quando andai al liceo, dove mio padre si era diplomato, per invitare Preside e studenti alla commemorazione che ci sarebbe stata da lì a qualche giorni e non percepì alcun interesse.

Comunque, negli ultimi anni, è come se la città – piano piano – avesse voluto riappropriarsi della storia di mio padre…del suo ricordo. Le tante iniziative, in sua memoria, sono sempre più partecipate e, ogni tanto, qualcuno mi ferma per raccontarmi qualche aneddoto su di lui.

Onorarne la memoria, dicevi. Per farlo degnamente, benvenute le iniiziative celebrative ma, cos’altro andrebbe fatto…secondo te?

Credo che le iniziative, in occasione di alcune ricorrenze, siano molto importanti ma, se non sono accompagnate da un impegno concreto e quotidiano, diventano sterile nostalgia.

Ciò che per me è importante è ricordare come mio padre ha vissuto, secondo quali ideali…non come e perchè sia stato ucciso.

Non so quale sia il modo migliore, in generale, ma posso dirti qual è il mio modo di onorarne la memoria…è andare oltre il racconto di lui e della sua vita, è stare accanto a chi, oggi, s’impegna per una società migliore, è camminare al fianco degli altri familiari di vittime innocenti, ovunque esse siano, qualunque sia la loro lingua o il loro Paese. E’ raccontare e sostenere chi, oggi, si batte per la difesa dei più deboli e per la tutela dei diritti umani perchè, oltre a fare memoria di chi non c’è più, voglio stare accanto ai vivi. Voglio essere viva!

Mio padre era fermamente convinto, tra l’altro, che il vero ago della bilancia in democrazia fosse il ruolo del “difensore”. Si batteva per la dignità della Toga.

Ecco, vorrei che chi la indossa, ogni giorno, lo facesse con onore. Solo così si potrà coltivare la vera “memoria”. La legalità va conquistata sul campo e passa anche attraverso la lotta a “quella sistematica arrendevolezza degli avvocati di fronte ai propri diritti” che svilisce la professione. Ecco, per questo lottava mio padre e per questo è morto.

In conclusione d’intervista, proprio per evidenziare che un assassinio non strappa solo un simbolo…un modo di fare la propria professione…ma un uomo, un padre all’affetto di sua figlia…chiudo con la domanda forse più retorica ma, certamente, più vera.

Flavia, cosa Ti manca più di Tuo padre?

Quanto tempo ho per rispondere?!

…i suoi occhi, il suo sorriso con quei denti larghi…che lo caratterizzavano…il suo profumo, le espressioni buffe che faceva. Questo…semplicemente ma, tutto…in definitiva!

Il contatto con Flavia Famà, che vive a Roma, è avvenuto eccezionalmente attraverso uno scambio di email senza che io abbia avuto, ancora al momento della pubblicazione dell’intervista, modo di guardarla negli occhi…di osservarne i gesti, così come amo fare, ma ho avvertito – a pelle – che le emozioni…il vissuto di questa giovane donna sono genuine al pari delle sue parole.

Genuina come suo padre, morto per aver semplicemente svolto il proprio lavoro con correttezza e professionalità.

Solo per questo!

Ci diamo, e Vi do appuntamento…l’8 e 9 novembre p.v.  a Catania quando la Camera Penale, che porta proprio il nome del penalista assassinato, darà vita ad una due giorni di celebrazioni che si propone di onorarne la memoria attraverso momenti di raccoglimento, di riflessione e di ricordo e per i quali saranno presenti a Catania…tra gli altri…il Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ed Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio che, nel 79, indagò – a costo della propria vita – sulla Banca Privata Italiana di Michele Sindona (per il programma dettagliato, Vi rimando alle notizie presenti sul web).

Ringraziando l’Avvocato Carmelo Passanisi, splendido “gancio” per questa intervista, l’appuntamento è… alla prossima!

Silvia Ventimiglia – 4 novembre 2015

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