A Tu per Tu con il barone Biagio Pace Gravina

Autore del celebratissimo “I bottoni del barone”, Pace Gravina ci racconta di valori antichi interpretati in chiave moderna

Incontro il barone Biagio Pace Gravina nell’antico palazzo di famiglia di Piazza Municipio a Caltagirone, Palazzo Gravina… per l’appunto. Lo storico edificio, costruito ai primi del 600 per il principe Gravina di Comitini, e passato – nel tempo – ad altre famiglie è, infine, ritornato alla famiglia originaria. Qui il barone Pace ed i Suoi 2 fratelli, Gianfranco e Giacomo, hanno conservato il piano nobile e recuperato tre appartamenti indipendenti che dividono con le rispettive famiglie. Appena il massiccio portone viene chiuso alle mie spalle, lasciando fuori il chiacchiericcio assordante di una Caltagirone viva e pulsante, come per magia, mi ritrovo in un’altra atmosfera, in un’altra epoca. Una lunga scala, sulle cui pareti si trovano, in bella mostra, arazzi… quadri e stemmi che richiamano la nobile appartenenza dei Suoi inquilini, porta all’abitazione del barone con annesso studio professionale dove Egli esercita la nobile arte giuridica.

Amabile anfitrione e gentiluomo vecchio stampo, il barone mi accoglie facendomi da guida nello splendore delle stanze, nella suggestione degli ambienti rigorosi e carichi di storia, generoso di aneddoti e memorie che attraversano la Sua famiglia da generazione in generazione. Tutto ciò, il barone Pace ha voluto fermarlo nella Sua opera prima “I bottoni del barone” della quale disquisiremo tra poco.

Accomodatami in uno dei bellissimi divani di casa Pace, con alle spalle il quadro di uno dei tanti illustri antenati testimone muto e severo di ciò che verrà detto, dò sfogo alla mia femminile curiosità e…

Barone, di Lei si sa che è nato a Roma, classe 1955 e che ha vissuto i primi anni di vita a Comiso, città natale della Sua famiglia paterna. Poi il trasferimento a Caltagirone, dove tuttora vive. Vuol condividere con noi qualche ricordo della Sua infanzia?

R. Comiso è la città della mia famiglia paterna che, lì, aveva casa. Una vecchia, grande casa piena di libri e di tende. Nel giardinetto, in una nicchia sotto un gradino, abitava il rospo che, di tanto in tanto, usciva e si guardava in giro. Per ore, da bambino, aspettavo la Sua apparizione. A Comiso ho cominciato a gustare le scorribande per strada con il “Carromattello” sfuggendo al controllo di mamma o di Peppino, nostra persona di casa ed ottimo cuoco. Ricordo i suoi arancini, allineati sul grande tavolo di marmo dell’anticucina, che riuscivo a sottrarre e divorare, prima della frittura. Penso alla Messa domenicale celebrata nella Cappella di casa da Padre Giustino non prima, però, di avermi messo da parte delle caramelle di miele, le mie preferite…Ripenso ai pranzi attorno alla grande tavola nei giorni di festa perchè, altrimenti, i pasti di noi bambini erano consumati nel salotto verde…alle gite ed ai soggiorni nella Villa del Piombo con i pranzi organizzati da mamma nel parco o in casa. Spesso andavo a mangiare con i contadini nel baglio, attorno al fuoco, mentre gli anziani raccontavano “cunti” antichi di guerra e d’amore e bevevano dal “bummolo”…

A Caltagirone, nella casa dei nonni materni, inizia un rapporto straordinario con nonna Rosa, memoria storica della Sua famiglia. Cosa amava di piu’ in Lei? Quale l’insegnamento piu’ importante che Le ha lasciato?

R. Nonna Rosa era una donna dolcissima eppure rigorosa. Usciva di casa soltanto per andare alla Messa domenicale e, rare volte, per condurci nella Villa di Cornacchio perchè sosteneva che, già passeggiando per casa, facesse chilometri. Ascoltava moltissimo la radio che teneva su un tavolino accanto alla Sua poltrona preferita nella camera da letto che, invero, era la stanza dove vivevamo di giorno. Amava parole crociate e cruciverba e non era contenta fin quando non aveva la conferma dell’esattezza delle parole dal suo Melzi. Il mio tavolinetto dei compiti era vicino alla sua poltrona e Lei soprintendeva sorridente al mio studio, passandomi il Suo vocabolario. Sugli orari non era possibile discutere. Conosceva a memoria le opere liriche e mi ha inculcato l’amore per la bella musica e per la storia che, dalle Sue labbra, non era materia fredda di studio ma vita vissuta.

Barone… so che a scuola scambiava il Suo piu’ nobile panino al prosciutto con quello, diciamo piu’ proletario, sgombro e ricotta, di un Suo compagno. Solo questione di gusto o dentro di Lei si celava una sorta di spirito ribelle, rivoluzionario?

R. Credo che la distinzione delle classi sociali sia un’invenzione borghese creata da chi ha timore di perdere uno status appena conquistato. In casa nostra non si è mai fatto problema di chi frequentassi e a casa venivano tutti i miei compagni di scuola…ho frequentato sempre la scuola pubblica…e ciò a prescindere da chi fossero i genitori. L’unico paletto che imponeva papà era che si trattasse di gente onesta. Io giocavo con i nipoti del portiere o i figli delle cameriere ed eravamo bambini allo stesso modo. La rivoluzione alla quale Lei accenna è un’invenzione borghese che mira a sovvertire un ordine fatto di cose semplici. Ancor oggi, appena posso, mi faccio preparare un buon panino con lo sgombro e mio figlio Salvatore apprezza anche Lui il nobile companatico.

Tra i tanti personaggi che hanno trovato spazio nella Sua infanzia…quali ricorda maggiormente e perchè?

R. Certamente gli amici del nonno Salvatore, veri compagni di baldoria, che mi portavano in giro. Spesso Totò tirava fuori dalla rimessa la 1400 cabriolet e ci conduceva alla conquista di posti sconosciuti…a ”zonzo” che, allora, credevo fosse un luogo preciso. Le crostate di ciliegia della zia Gigia o le torte di noci della zia Concettina…la cicoria bollita e l’insalata di “piretti” della nostra Teresa…

Barone, la Sua infanzia e la Sua adolescenza, hanno il profumo, il sapore di…

R. Certamente il profumo è quello del gelsomino che la nonna Rosa curava sul balcone della sua camera…Il sapore è quello forte dello sgombro…Contrapposti ma, a pensarci bene, non diversi da altre contraddizioni che, mescolate, creano bellezze uniche come il fuoco e la neve dell’Etna o i boschi e le distese aride che fanno della nostra Isola il Paradiso in Terra.

In età giovanile, La ritroviamo a frequentare di giorno l’Università di Catania e di notte Taormina…

R. Un destino comune a tanti ragazzi che si affacciavano, come me, al mondo. A Catania, frequentando il primo anno d’Università, avevo preso casa assieme ad altri compagni del liceo. Un gruppetto affiatato… specialmente al tavolino di poker o a corteggiare svedesi sul corso…. Da qui la saggia decisione di proseguire gli studi vivendo a Caltagirone.

Padre di due splendidi ragazzi…cosa vorrebbe riuscire a trasmettere Loro?

R. Salvatore e Carlo sono la mia vita. Due ragazzi monelli com’è giusto debbano essere. Di una monelleria buona, però! Hanno un bel senso dell’amicizia e nessun grillo per testa. Amano ascoltare le favole e mi chiedono di inventarne di nuove…magari fuori dagli schemi tradizionali. Sono molto uniti e spero che, crescendo, comprendano l’importanza della famiglia conservando e tramandando ai loro figli ciò che di buono conserviamo da sempre…valori semplici eppure senza tempo.

Quali gli hobbies di un barone del nostro tempo?

Da ragazzino collezionavo modellini di automobili, soldatini, francobolli…Ero appassionato, anche, di fotografia grazie agli insegnamenti di papà con cui trascorrevo ore in camera oscura. Crescendo, ho cominciato ad amare le auto storiche. Pensi, ho avuto una Topolino A (e qui lo sguardo del barone si illumina di una luce quasi fanciullesca). Altre grandi passioni, la musica… i viaggi. Mi piace il gioco tra amici e ogni tanto mi concedo una serata al Casinò. Combatto battaglie ambientaliste e per la salvaguardia dei beni culturali (A tal proposito, va ricordato che il barone Pace Gravina è socio di SiciliAntica, responsabile del progetto Salvalarte Sicilia per Caltagirone e che, da anni, si batte perchè la Sua cittadina riconquisti lo storico Teatro organizzando manifestazioni e costituendo su Facebook un gruppo di sostegno al quale hanno aderito in tantissimi), leggo tanto e scrivo per un giornale locale, “L’obiettivo”. Recentemente racconti e romanzi. Infine, cucino… inventando ricette nuove o rielaborando quelle tradizionali.

Barone, portare il nome di Suo nonno…famoso archeologo…piu’ responsabilità o privilegio?

R.Portare il nome del nonno Biagio è un grande onore e spesso mi trovo a rispondere alla domanda “Parente di Biagio Pace?”. Il nonno è stato una figura complessa e completa con interessi che spaziavano dall’archeologia, alla politica, allo spettacolo. Non v’è campagna di scavo, della prima metà del ‘900 in Italia, in Africa o in Asia, che non abbia registrato il contributo del nonno ed ancora oggi i Suoi scritti sono attuali nonostante le nuove scoperte. Il nonno ha, tra gli altri, il merito di aver fortemente voluto la legge del 1939 sulla tutela dei Beni architettonici ed archeologici e grazie a quella legge è stato possibile il rientro, in Italia, anche della Venere di Morgantina. Il Suo impegno per il teatro greco di Siracusa ne ha fatto una realtà importante nell’offerta di spettacoli di qualità a livello internazionale. Spesso la nostra biblioteca ospita studenti e studiosi che si interessano del lavoro del nonno e dei Suoi scritti e manoscritti, come recentemente è avvenuto per la questione dell’Aeroporto di Comiso che il nonno immaginava già motore dello sviluppo commerciale e turistico dell’intera Sicilia sudorientale.

Nonno Biagio era un archeologo teorico e pratico. Insegnò all’Università e seguiva le campagne di scavo personalmente anche in condizioni difficili, riuscendo ad essere nel posto giusto al momento giusto. Ebbe una vita avventurosa che Lo portava spesso a rischiarla per inseguire gli studi e la ricerca sul campo…una specie di Indiana Jones italiano. Che fu ad Odessa durante i giorni della rivoluzione ed a Istanbul quando l’ultimo Sultano lasciò il Topkapi, impegnato ad evitare che orde disperdessero i tesori di civiltà accumulati…Portare quel nome vuol dire fare i conti, ogni giorno, con la Storia!

Lettore appassionato, verso i 50 anni, scopre il piacere della scrittura e dà alla stampa la sua Opera Prima “I bottoni del barone” per la quale Le viene attribuito il premio “Gazebo” 2010 per la letteratura. Solo piacere di scrivere o necessità… di cosa?

R. Piacere, senza dubbio. Non parlerei di necessità. Piuttosto desiderio di fermare sul foglio momenti e sensazioni, realtà e fantasia, personaggi reali ed altri fantastici ma per me ugualmente reali perchè frutto di sogni. Il sogno è una componente importante e credo che, di tanto in tanto, costituisca una valvola necessaria per superare la monotonia o, peggio, la bruttura che ci circonda.

La nostra chiacchierata finisce lì e, uscendo da Palazzo Gravina, riguadagno il rumore della strada e con esso la frenesia del nostro tempo. La tentazione sarebbe quella di rientrare in quegli ambienti ovattati dove regna l’eleganza, non solo estetica, ma dei pensieri….del sentire. Non è possibile, però! Durante il nostro incontro, non sono scesa nel dettaglio del contenuto del Suo libro perchè so che ci sarà tempo e spazio per riflessioni piu’ accurate alla presentazione che avrà luogo, così come realmente avvenuto lo scorso 13 novembre, da lì a qualche settimana presso la libreria Mondadori di Catania. Relatori dell’incontro, che ha richiamato un folto ed attento pubblico, il giornalista Daniele Lo Porto ed indegnamente la sottoscritta. L’opera narra, in nove racconti autonomi, il percorso umano e terreno di Don Paolo Guttadauro, barone della Ganzaria attorno alla cui figura ruota l’intera vicenda. L’autore è bravissimo a descrivere i personaggi tanto che, anche al lettore piu’ distratto, non sfugge che si possa trattare piu’ che di abilità descrittiva dello stesso, di fatti e persone realmente esistite. L’autore, pressato, ammette che ha voluto fermare su carta i racconti tramandatiGli oralmente dalla tanto amata Nonna Rosa che quei personaggi o aveva conosciuto o il cui ricordo era per Lei piu’ recente. Il barone in questione, trisavolo dell’autore, dopo un approccio al pensare democratico, torna sui suoi passi con la consapevolezza che a gente come Lui spettasse solo il compito di conservare ciò che di buono aveva ricevuto in eredità, senza colpi di testa anche in considerazione del fatto che la sua saggia gestione del patrimonio serviva a garantire buona vita alle tante persone che dipendevano, a vario titolo, da lui. Il barone Guttadauro non ha la cattiveria e l’attaccamento ai beni materiali dei personaggi descritti da De Roberto ne “I vicerè” né la disperata rassegnazione di Fabrizio Salina de “Il gattopardo”. Qui è tutto molto distaccato. Quella descritta è una società che si muove in un quadro piu’ unitario dove ritroviamo il barone che mercanteggia con il venditore di bottoni, da cui ha inizio il romanzo, e che parla con il ciabattino. La differenza di classi sociali è piu’ formale che sostanziale, “gli uni legati agli altri – come ha evidenziato lo scrittore Domenico Seminerio – da social catena nell’intento di contrastare la difficoltà del vivere”. Quello descritto è un mondo di piccoli intrighi, la cui normalità viene fuori anche nell’approccio provinciale alla modernità…un mondo fatto di pizzi e merletti. Tra i tanti personaggi, spiccano gli appartenenti alla famiglia del barone Guttadauro…tutti nella realtà componenti della nobile famiglia dei Cultrera di Montesano e della potente famiglia militellese dei Majorana. La famosa nonna Rosa, scopriremo, era figlia di quell’Angelo Majorana…”statista che le giovani ali dischiuse ad altissimi voli”, come sottolineato da Gabriele D’annunzio, e che fu rettore dell’Università di Catania e giovanissimo Ministro alle Finanze sotto il governo Giolitti, morto prematuramente a soli 44 anni. Nel romanzo ha le sembianze di Antonio Maynardi, giovane del quale si innamora perdutamente, ricambiata, Giulia figlia del protagonista…nella realtà mamma della succitata nonna Rosa. Tanti i personaggi, dicevo, che oltre a farci sorridere e a volte ridere, ci portano ad una serie di osservazioni sulla politica, sugli usi ed i costumi di un’epoca…quella siciliana a cavallo tra l’Ottocento ed i primi del Novecento.

Il libro, la cui lettura è godibilissima, si chiude alla morte del barone quando l’orologio del Suo tempo terreno si ferma ed i figli si dividono, in parti uguali, tutto il patrimonio sia che si tratti di case che di terre che di…bottoni, per l’appunto. In un continuo frazionamento.

Silvia Ventimiglia – Ottobre 2010

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