Maria Giambruno e L’Arte di Essere sé Stessi: “L’immagine non deve schiacciare, deve liberare”
In un momento storico in cui i giovani fanno i conti con identità fluide, pressioni sociali e linguaggi visivi che spesso amplificano insicurezze e stereotipi, Maria Giambruno porta avanti un progetto che ribalta le narrazioni tradizionali su corpo, immagine e autenticità. Giornalista, promotrice culturale e fondatrice della sezione Zonta International Palermo Zyz, Maria Giambruno ha ideato “L’Arte di Essere sé Stessi”, un percorso che unisce moda, creatività e consapevolezza per aiutare gli studenti a costruire il proprio racconto personale con libertà e rispetto. In questa intervista ci accompagna dentro la sua visione e il valore educativo di un laboratorio che parla ai ragazzi usando il loro stesso linguaggio. Sicilian Secrets l’ha incontrata.
D: Partirei da lei: chi è Maria Giambruno oggi e quale percorso personale e professionale l’ha portata a ideare un progetto che intreccia corpo, immagine e autenticità?
R: Chi è Maria Giambruno? Sono una giornalista e un’instancabile cercatrice e costruttrice di bellezza. Da sempre impegnata sui temi dell’uguaglianza e della parità; un impegno nato già all’inizio degli anni ’90 grazie a un corso dell’ISAS che mi ha fatto comprendere quanto fosse necessario lavorare sulla cultura del rispetto e sulle pari opportunità. Una vocazione che è diventata una missione attraverso molte esperienze associative, fino alla fondazione, tredici anni fa, di Zonta International Palermo Zyz, sezione della più antica organizzazione per i diritti delle donne. Per me la bellezza è nelle parole, nei suoni, nei colori, nello stile. È in questa ricerca che ho dato vita a “Una Marina di Libri”, festival che in sedici anni è diventato un luogo di incontro, confronto, sperimentazione e nuove narrazioni. Al suo interno, da tre edizioni, ha peso corpo “I Segni di Venere”, una rassegna, ancor meglio una sezione speciale, che guarda il mondo con gli occhi delle donne e che rappresenta un laboratorio creativo prezioso.

D: “L’Arte di Essere sé Stessi” nasce da una collaborazione articolata tra Significa Palermo, I Segni di Venere e il CCN Piazza Marina & Dintorni. Com’è nata l’idea del progetto e quale esigenza culturale o sociale l’ha ispirata?
R: Dopo il Covid mi sono resa conto di quanto fosse diventato difficile per i giovani mettersi a nudo. I social hanno amplificato il senso di inadeguatezza, trasformando piccole paure in silenzi e le fragilità in disagi e patologie. Da qui la necessità di aprire nuovi canali del dialogo, trasformando corpo e immagine in strumenti di consapevolezza e non di giudizio. “L’arte di essere sé stessi” parla di identità, libertà di essere ed esprimersi, autodeterminazione in una maniera giovane, fresca, divertente, attuale. È un progetto che ha trovato il sostegno dall’Assessorato della Famiglia e che abbiamo portato avanti insieme all’associazione Significa Palermo, a Le Gemme, al Centro Commerciale Naturale Piazza Marina & Dintorni, all’Accademia di Belle Arti e al Convitto Nazionale “Giovanni Falcone”, che è anche capofila della Rete Al Qsar che coinvolge oltre 6000 studenti del centro storico. Il progetto risponde all’esigenza di offrire nuovi strumenti per parlare ai giovani di parità, rispetto e identità personale, in un momento storico in cui immagine e linguaggi visivi hanno un ruolo determinante nella costruzione del sé.
D: Moda e immagine, spesso accusate di generare stereotipi, qui diventano strumenti per promuovere autenticità, rispetto e inclusione. Come avete lavorato per ribaltare queste narrative e trasformarle in linguaggi educativi positivi?
R: Abbiamo scelto di usare un linguaggio che i ragazzi conoscono e sentono vicino aiutandoli a essere real, a non flexare un’immagine che non appartiene loro, ma a own their style — scegliersi da soli, con libertà e consapevolezza. Perché l’immagine non deve schiacciare: deve liberare. Lontano dall’idea di vanità o vacuità, abbiamo restituito alla moda il suo significato più autentico: una forma espressiva e un atto di autodeterminazione. Scegliere come mostrarsi al mondo attraverso l’outfit è un gesto naturale, istintivo, ma anche profondamente politico: significa scegliere per sé, non per piacere o compiacere. Durante i laboratori, questo concetto è stato il filo conduttore. La moda è stata utilizzata come strumento per far emergere la parte più profonda dei ragazzi, il loro bisogno di rappresentare sé stessi, le proprie paure, i propri limiti e da lì abbiamo parlato di autostima, parità, rispetto, empowerment, unicità e autenticità. Abbiamo trasformato moda e immagine da modelli da imitare a strumenti di riconoscimento del proprio valore e di rafforzamento dell’autostima. Ognuno può modificare la propria immagine attraverso l’abito: quando si sceglie uno stile coerente con ciò che si è, ci si sente più sicuri, più liberi, più autentici.

D: Come vi siete mossi a livello pratico?
R: Nei laboratori abbiamo mostrato che lo stile è una scelta, non un’imposizione, e che anche i cambiamenti del corpo possono diventare opportunità per trovare una nuova coerenza tra ciò che si mostra e ciò che si è. E soprattutto che i punti di debolezza possono trasformarsi in punti di forza. Attraverso attività creative i ragazzi hanno destrutturato stereotipi e imparato a distinguere l’autentico dal costruito. Così la moda diventa un mezzo per parlare di rispetto e libertà, e l’immagine uno spazio dove riconoscere e disinnescare le pressioni esterne.
D: Il progetto ha coinvolto studenti del Convitto Nazionale e dell’Accademia di Belle Arti. Perché ha scelto proprio questi target di giovani e cosa ha osservato nel modo in cui vivono corpo, identità e rappresentazione?
R: Il Convitto Nazionale e l’Accademia di Belle Arti rappresentano due mondi diversi ma complementari: adolescenti in piena costruzione identitaria e giovani artisti che già lavorano sulla rappresentazione del sé. Da questa doppia prospettiva è nato un dialogo molto ricco. Abbiamo incontrato ragazzi sensibilissimi, consapevoli delle pressioni esterne ma spesso timorosi di esporsi. Il rapporto si è ulteriormente rafforzato grazie alla realizzazione di “Chi sono quando mi vesto”, un cortometraggio sull’esperienza, realizzato dagli studenti del Convitto guidati da due specializzandi del corso audio-video dell’Accademia.

D: L’iniziativa rientra nella campagna “Zonta Says No” contro la violenza di genere. In che modo il percorso creativo proposto ai ragazzi si connette al tema della prevenzione della violenza e della cultura del rispetto?
R: Lavorare sull’immagine significa lavorare sul rispetto: di sé, degli altri, del riconoscimento dei confini personali. La prevenzione della violenza nasce anche dalla capacità di riconoscere la propria identità, difendere il proprio spazio, comprendere il consenso e leggere i segnali delle relazioni insane. Attraverso attività artistiche e riflessioni guidate, i ragazzi hanno esplorato il valore del corpo come luogo di libertà, non di imposizione; dell’immagine come narrazione personale, non come arma di giudizio. In questo senso, il progetto contribuisce alla cultura del rispetto che è alla base della campagna “Zonta Says No”, mostrando ai giovani come la violenza si combatta anche cambiando linguaggi, sguardi e comportamenti quotidiani.
D: La Sicilia è una terra in cui tradizione, immagine e ruoli sociali hanno ancora un peso forte. Qual è, secondo Maria Giambruno, il grado di consapevolezza e sensibilità dei giovani siciliani rispetto ai temi dell’autenticità, del consenso e della costruzione dell’immagine personale?
R: I giovani siciliani hanno una sensibilità molto sviluppata. Crescono in un contesto dove tradizione, ruoli sociali e cultura visiva hanno un forte peso, e sentono con intensità il bisogno di liberarsi da modelli imposti, ma non sanno come fare. Hanno sete di autenticità e desiderano relazioni fondate sul rispetto reciproco, ma hanno difficoltà ad essere ascoltati e a trovare spazi sicuri per esprimersi. Progetti come questo offrono loro strumenti concreti per capire chi sono e costruire un’immagine coerente con ciò che sentono.

D: Dopo i laboratori e il confronto diretto con gli studenti, qual è stato l’impatto più evidente che ha osservato nei ragazzi in termini di consapevolezza, apertura, o cambiamento nel modo di percepire sé stessi e gli altri?
R: L’impatto più evidente è stato un cambiamento nella postura emotiva: più apertura, più ascolto, più capacità di raccontarsi. Giocando hanno trovato un modo per dare un nome alle proprie emozioni. Molti hanno sviluppato una nuova responsabilità nell’uso della propria immagine — dai social alla vita quotidiana — comprendendo che ogni rappresentazione porta un messaggio. Il progetto ha mostrato loro che possono essere protagonisti del proprio racconto, non spettatori.
D: Dopo questa edizione, quali prospettive immagina per “L’Arte di Essere sé Stessi”? Nuove scuole, nuovi linguaggi, una rete più ampia? Nella lista dei desideri di Maria Giambruno, dove vorrebbe che arrivasse questo percorso nei prossimi anni?
R: Mi piacerebbe che “L’arte di essere sé stessi” diventasse un percorso adottato stabilmente dalle scuole. La moda è un linguaggio potentissimo per aiutare i ragazzi a conoscersi, a sentirsi bene e a valorizzare la propria unicità, affrontando temi complessi con strumenti che parlano davvero al loro mondo. Per questo credo che le scuole debbano scegliere con convinzione di integrare questo progetto nella loro offerta formativa per offrire ai propri strumenti un’opportunità concreta di crescita, sicurezza e consapevolezza.