E’ uno di quei giorni che Ti prende la malinconia…

A volte può capitare di fare un “viaggio” diverso…magari nei proprio ricordi ed è bene lasciarsi andare, prendere fiato e ricominciare…

 

“E’ uno di quei giorni che Ti prende la malinconia…” canta Ornella Vanoni in un Suo celeberrimo brano e Ti accorgi che il successo di una canzone nasce da quanto le parole riescano ad intercettare un sentimento comune. A chi non capita di vivere “uno di quei giorni…”. A chi piu’ spesso a chi meno frequentemente ma la sostanza non cambia. Forse l’intensità o il modo di viverla.

Qualche giorno fa, rispondendo ad un vecchio richiamo, mi sono ritrovata nel collegio in cui ho frequentato, felicemente, le Elementari e le Medie. Non era da allora che non vi entravo. In verità, negli anni avvenire vi ho accompagnato, con impegni quasi quotidiani, alcune mie nipoti ma, in quei casi, ero la zia che percorreva quei corridoi, che respirava quelle atmosfere. Non ero quella bambina che, in quei luoghi, si è sempre sentita protetta ed amata e che lì sognava il proprio futuro. L’altro giorno, dicevo, è stato diverso. Ritornavo IO con la mia camminata infantile…veloce e sempre diretta in qualche posto, fosse l’aula…la “camera di pulizia”, come veniva chiamato allora il bagno, il parlatorio, la segreteria….sempre alla ricerca di qualcuno con cui comunicare. Una costante. Man mano che percorrevo il lungo e sempre lucidissimo marmo del corridoio principale, il rumore dei miei passi attuali, un po’ stanchi e pesanti ha ceduto il passo al rumore di quelli di allora. E’ stato soppiantato e relegato, come sottofondo, a quello che andavo cercando in “uno di quei giorni….”. Passi svelti, dicevo, ravvicinati, leggeri e veloci di una bambina. Passando davanti allo stanzino che un tempo era sede del telefono fisso, unico modo che si aveva allora di comunicare con il mondo esterno, sento la voce di Suor Rosetta che mi incita a sbrigarmi “Sempre in ritardo…” sbuffa con tono falsamente burbero. Non mi accorgo neppure, tranne che a posteriori scrivendone ora, che quel giorno si è affacciata un’altra suora, un viso non conosciuto. “Dove sta andando Lei?” L’impulso…quello di rispondere “Sto cercando me…” ma La liquido con un infastidito “In segreteria”. Come osava chiedere a me dove stavo andando…a me e a casa mia, poi! Affretto i passi. Li sento e mi torna il mente il rumore dei passi, nella deserta sala stampa, del “reporter americano” Gregory Peck in “Vacanze romane”. Ha appena consegnato alla “principessa” Audrey Hepburn delle foto per così dire compromettenti, a suggello di un amore che non potrà avere alcun altro sviluppo futuro, e si avvia all’uscita. Nessuna parola, nessuna musica di sottofondo…solo il rumore dei passi. E solo quello sento anch’io. C’è silenzio. E’ orario di lezioni e pertanto…

Passo davanti alla porta della segreteria. Provo ad abbassare la maniglia. Mi accorgo di accostarmi, stavolta, dall’alto verso il basso. Allora, soprattutto all’inizio della mia carriera scolastica, avevo necessità di mettermi sulla punta dei piedi. La maniglia è la stessa, lisa e fredda come allora. Ma all’interno non ci troverei piu’ il calore e l’allegria di Suor Concettina sempre alle prese con foto, documenti ed archivi. Ci troverei, non me ne vorrà, una gentile ma asettica laica che non sa nulla di me né di ciò che significa per me essere lì. Lei, Suor Concettina, se n’è “volata in cielo” per usare un termine che usava spesso un giorno di tre anni fa, mi dicono. Una vita vissuta, la Sua, attraverso la vita di ciascuna delle allieve che ha curato anche nella veste di Insegnante di Educazione artistica. Non abbasso quella maniglia e continuo lungo il corridoio fino alla grande statua che raffigura Maria Ausiliatrice.

La pietra è sempre bianca, liscia e fredda. Anche il serpente che si trova ai piedi della Vergine, a rappresentare la sottomissione del male al bene, è lì. Oggi, come oltre 40 anni fa. Accarezzo il piede della Madonna attorno al quale è attorcigliato il rettile. La mia mano stavolta non è quella manina piccola sempre con i geloni e le unghie tormentate da una voracità persa con il tempo. E’ una mano un po’ piu’ curata, poco piu’ eh?, con piccole rughe e vene ben evidenti che mi ricordano quelle di mia madre. A volte m’impressionano certe somiglianze. Le mani, le gambe,il modo di ridere e di far ridere gli altri e quella struggente nostalgia del passato che è la cifra che mi ha lasciato in eredità e che ci ha accomunato nella nostra diversità. Diversità che ha fatto sì che fossimo così distanti e vicine, in vita, in un gioco di equilibri che non ha mai trovato pace.

Volgo lo sguardo sulla sinistra e vedo le due rampe di scale che portavano all’aula in cui frequentavo le Medie. Guardo dietro i vetri. Nel banco che un tempo fu il mio, vedo seduta una ragazzina annoiata e che si passa le dita tra i lunghi capelli a fare dei boccoli. Anche la professoressa non è una suora…mi dicono che c’è crisi di vocazioni e che moltissime sono le laiche che insegnano al posto delle religiose. Ripenso a Suor Adalgisa, così severa e così poco materna e mi ritrovo a ripensare alla passione con cui ci spiegava la Divina Commedia, la letteratura italiana, il latino…se solo fosse stata piu’ materna!

Ritorno sui miei passi ed, attraverso il cortile secondario, mi avvio verso i locali che un tempo furono le primissime aule di musica. Lì ho consumato ore ed ore di studio, con la testa altrove. Oggi sono tornati ad essere quello che erano originariamente, locali di raccolta di generi alimentari. Già dopo qualche anno che avevo cominciato con il mio faticoso percorso di studi musicali, le stesse avevano trovato allocazione nella parte nuova del collegio ed ancora sono lì.

Ripenso che, mentre prima vedevo giocare le mie compagne da sotto, essendo le prime aule sotto il livello del cortile delle Elementari, in seguito le vedevo da sopra essendo state trasferite al di sopra del salone con vista sul cortile delle Medie. Sarà per questo che non ho mai amato suonare il pianoforte. Sempre incatenata a ritmi che non riconoscevo come miei, ad una passione che avrei dovuto sentire per proprietà transitiva, tramandatami dalla mia bisnonna ed arrivata fino a mia madre ma che in me aveva trovato una soluzione di continuità, un gap che mai piu’ sarebbe recuperato e trasmesso alle generazioni avvenire. Chissà, forse avessi avuto una figlia, avrei provato con Lei e Lei forse ne sarebbe stata contenta ma sui forse non si costruisce il futuro e così, oggi, quel pianoforte che aveva conosciuto la Grande guerra e che, poi, nel corso della Seconda guerra mondiale era diventato bottino di guerra, fortunosamente, recuperato oggi giace immobile ed inutilizzato in una stanza-magazzino in attesa che qualcuno lo recuperi alla sua funzione originaria ed alla sua tradizione familiare. Forse.

Risento la mia voce di bambina che incita le altre a giocare ora “al fazzoletto”, ora al “gioco delle mattonelle”, “al girotondo” di cui ricordo nitidamente la canzone di accompagnamento “Corri, corri, fanciullino, corri corri la la la la” …è un sovrapporsi di voci di diverso timbro, a seconda delle età vissute in quel collegio. Una costante, correre…sudare…cantare. Fino a quando, il desiderio di proseguire con gli studi classici, assenti a quel tempo nel mio amato collegio, mi costrinsero ad emigrare in un’altra scuola. Una scuola pubblica. Fine dei giochi.

Ripasso lungo il corridoio coperto, m’inchino – come allora – davanti alla grotta di Lourdes ricavata accanto ad una delle porte laterali della Chiesa vecchia e risalgo una breve scala, la stessa in cui le suore ci posizionavano per le foto di rito. In tutte rido. Ormai era notorio che al solletico proprio non resistevo e, così appena un attimo prima del click, qualcuna delle mie compagne mi sfiorava leggermente il fianco e giu’ a ridere… consegnandomi alla storia scolastica con una facciona sempre paonazza e divertita. Tranne in quella della Prima elementare. Lì ho una faccina afflitta. Non era un buon periodo per me, non lo era per la mia famiglia, diciamo così.

Proseguo, passo davanti all’infermeria. Mi accorgo di non esserci mai entrata tranne che il mio primissimo giorno di scuola quando, volendo fare la furba con i bambini dell’asilo, io che frequentavo già le Elementari, mi ero messa sulla Loro altalena e, richiamata dallo scampanellino di fine ricreazione, non avevo aspettato di essere ritornata in giu’, pretendendo di scendere dal punto piu’ alto atterrando direttamente sul naso, a faccia in giu’. Episodio che una evidente ed antiestestica deviazione del setto nasale non mi ha mai permesso di dimenticare. Era stato questo il mio esordio scolastico che non lasciava a prevedere nulla di buono se non che, a dispetto di tutti e tutto, la mia carriera scolastica si mantenne su un tenore alto in termini di profitto e di condotta. “Dimostra grandi doti di mente e di cuore…” ricordo la malcelata soddisfazione di mia madre alla lettura di quel giudizio ed anche se me ne sfuggiva allora il significato pensai, leggendolo sul volto di mamma, che doveva essere positivo anche se mai Lei avrebbe esternato qualcosa che mi facesse comprendere che stessi facendo piu’ di quello che dovevo fare. Né piu’… né meno. Con la maturità di oggi e senza che questo possa suonare come un rimprovero a mia madre…se solo mi avesse gratificato qualche volta, forse oggi sarei una donna piu’ forte. Piu’ felice, in definitiva. Forse.

Risalgo la scaletta stretta e ripida che porta alle salette di musica, quelle che presero il posto degli scantinati in cui consumavo ore ed ore in noiosissimi solfeggi. La vista, come allora, è sul cortile principale. Rivedo una per una le mie compagne di allora… Marilena, Loredana, Donatella, Anna Maria…tutte intente a fronteggiarsi in interminabili partite di “Palla avvelenata” o “Palla prigioniera” mentre io mi avvelenavo l’infanzia e l’adolescenza perseguendo una passione che non mi apparteneva. A volte chiudevo gli occhi con forza. L’avevo visto fare in qualche film d’animazione dove Ti dicevano che con la volontà avresti potuto cambiare il Tuo momentaneo destino. Era con le mie compagne che avrei voluto stare a giocare? Bene, sarebbe bastato chiudere gli occhi e desiderarlo con tutto il cuore per vedere realizzato il mio sogno. Mai successo. Anzi, a volte, mi ritrovavo a riaprire gli occhi, con i pugnetti delle mani ancora stretti per acchiappare meglio la concentrazione e trovare davanti a me, insalutata ospite e coprotagonista del mio dramma, Suor Teresa che – nel mio brio incontenibile – vedeva – a detta Sua – la presenza del “Maligno”. La disciplina mi avrebbe aiutato a liberarmi dalle tentazioni e giu’ ad assegnarmi compiti supplementari su compiti. Provo a sedermi in uno degli sgabelli e poggio le mani sui tasti. Oggi potrei ribellarmi, urlare che odio stare ore ed ore al pianoforte mentre tutte le mie energie potrebbero trovare sfogo in una salutare partita con le mie compagne. Oggi potrei ma, sotto in cortile, non ci sono piu’ le mie compagne ad aspettarmi e ad incitarmi a scendere per far cambiare le sorti della partita.

Percorro il lungo corridoio dove sono allineate le tante camerette di musica e guadagno l’uscita dalla parte opposta laddove si trova la sala di musica dove, alle Medie nelle ore dedicate alle lezioni di Educazione musicale…anche quelle!!!!, mettevamo su concertini a base di zufoli e pifferi.

Scendo un piano di scale e, dietro ad una porta basculante, mi ritrovo nella tribuna del salone dove un gruppo di bambini provano il saggio di Natale. Mi siedo protetta dall’oscurità ed osservando quello che succede sul palco, come trascinata su una macchina del tempo, mi ritrovo vestita da Ibani – una schiava romana che al tempo di Erode fu gettata in pasto alle murene. Suor Ausilia, forte assertrice del metodo di Lee Strasberg, aveva preteso che venissi realmente gettata in una botola che andava a finire sotto il palco. Il tutto doveva essere piu’ simile alla realtà possibile. Se non potevo vivere lo strazio di essere divorata da famelici pesci quantomeno, in mancanza di grandi doti di attrice, dovevo soffrire almeno un po’ per poter trasmettere al pubblico un senso minimo di tragedia. Va da sé che l’esperienza di Ibani mi scoraggiò da qualsiasi velleità artistica.

Era giocare che volevo e così sublimai la mia voglia di correre, di sudare e bere litri d’acqua (la piu’ buona abbia mai bevuta) direttamente dal rubinetto dei bagni accanto al salone nell’attività di ginnastica artistica che era la punta di diamante delle lezioni di ginnastica. Ero imbattibile in “salto della cavallina”, nel “quadro svedese”, nelle coreografie a base di ruote e capriole.

Persa nei miei ricordi, sento una maestra annunciare,con voce ferma, che è ora di tornare in classe. Una folla vociante di bambini guadagna l’uscita dal salone e si incammina lungo le scale che io mi ritrovo a fare all’incontrario.

Dirigendomi verso il cortile, lo sguardo viene catturato dal “quadro svedese” che, stranamente, non è assicurato al muro con il catenaccio…forse non occorre piu’ non avendo molto appeal sui bambini ed i ragazzi di oggi. Forse su di loro ma… su di me ha un richiamo ancestrale.

Poggiata la borsa per terra, provo ad entrare di schiena nel primo quadrato e con difficoltà riesco. Con altrettanta difficoltà riesco a raggiungere l’ultimo riquadro e posizionate le gambe, mi lascio cadere di schiena e con un disegno che, evidentemente, fa parte del mio patrimonio di memorie riesco ad atterrare a gambe unite così come si doveva. Davanti a me, lo sguardo incuriosito e perplesso di una suora. Penso non sia possibile che sia Lei, Suor Giuseppina. Credo sia frutto di immaginazione ed invece…”Menomale che non passava nessuno…eri praticamente nuda! Il quadro svedese si fa con la tuta, non ricordi…Silvietta?” Pone l’accento interrogativo sul mio nome. Neppure Lei è certa che sia io così come io stento a credere sia Lei. Quante battaglie abbiamo fatto insieme per convincere mia madre a mandarmi in trasferta con la squadra di pallavolo, alle gite scolastiche…fuori dal Suo cono di osservazione e di controllo, in definitiva. Mai riuscite! “L’importante è provare…”. Questo mi ripeteva, piu’ delusa di me ogni volta che provavamo a convincerLa senza mai riuscire. Mi ripete, quasi a voler confermare la convinzione di avermi riconosciuta “L’importante è provare, vero?” “Si…proprio vero, l’importante è provare, Suor Giuseppina!” Il contatto è stabilito. Il gap di 40 anni o giu’ di lì è colmato. Ci riconosciamo ed è festa. Stavolta sono io ad appoggiare la Sua testa sul mio petto e non viceversa. Sono cambiate le altezze e tante altre cose. Mi chiede di me e sottolinea ogni mia tappa di vita con un sentito “Non avevo dubbi, brava”. Va da sé che, per non guastare l’atmosfera, Le ho solo raccontato ciò che di bello è successo nella mia vita tralasciando, consapevolmente, il resto o quantomeno accompagnando i ricordi con risate crasse tali da distogliere l’attenzione su uno sguardo che, a detta di molti, non riesce a mentire. Il mio men che meno con quel filo sempre di melanconia che non mi abbandona mai. Mi chiede delle compagne di classe e mi ricorda che, ai tempi, avevo un’amica del cuore, Marilena. Le dico che sono riuscita, proprio di recente, a rintracciarLa attraverso Fb “Sempre fedele! Anche nelle amicizie…Rimani così anche se questo può farTi soffrire”. Quando avverto che il discorso scivola su note che mi porterebbero su un piano emotivo che non riuscirei a controllare, accampo la scusa di un impegno da rispettare. L’abbraccio e scappo via. Non so se La rivedrò mai piu’. Guadagno l’uscita e mi ritrovo a due passi dalla mia macchina posteggiata sulla Via Caronda. Mi giro, riguardo il portone su cui campeggia la scritta IMA (Istituto Maria Ausiliatrice) e metto in moto, lasciando lungo i corridoi deserti il rumore dei miei passi e nel cortile il suono della mia voce che incita a tirare la palla, le mie risate…. Lasciando in definitiva una parte di me stessa. La migliore.

Quando la commozione sta per prendere il sopravvento, mi ricordo che in fondo è solo “uno di quei giorni che Ti prende la malinconia e che fino a sera non Ti lascia piu’…”. Vado, riprendo fiato e via…si ricomincia!

Alla prossima!

Silvia Ventimiglia – Dicembre 2013

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