La domanda sorge spontanea. Fu Biscari, con CANI IMPAGLIATI, a prendere spunto da Tomasi e da IL GATTOPARDO o viceversa?

A Catania, una scoperta che potrebbe avere dei risvolti sensazionali. Viene alla luce un testo teatrale che racconta le vicende di un Gattopardo in “salsa” orientale, a firma di Peppino Paternò Castello XII Principe di Biscari Troppe le similitudini tra le due opere… imperativo categorico, per fugare legittimi dubbi, scoprirne la data di stesura.

E’ caldo, anzi caldissimo stamattina. Niente mi convincerà a mettere il naso fuori dal cono di protezione dell’aria condizionata, sparata a palla, in ufficio. Dalla mia postazione privilegiata, guardo giù in strada e vedo gente che cammina stanca e, ne sono certa, sudata ed accaldata. Tutta intenta a seguire le proprie occupazioni.

D’improvviso, preceduto dal rumore di una marmitta a me familiare, ecco arrivare in motorino Roberto. Spero abbia intenzione di salire. Per nulla al mondo mi consegnerò al forno crematorio che appare essere la strada sottostante. Persino le immagini che intravvedo al di là del vetro mi restituiscono figure tremolanti. Come fossero in piena cottura.

Roberto è intento a trafficare con il telefonino. “Ecco, lo sapevo!”… prima di riuscire a staccare il mio così da costringerLo a salire…il telefonino squilla e Lui mi chiede di scendere.

Al mio invito a ripararsi in un ambiente fresco e confortevole, mi fa presente che ha premura. E’ la Sua cifra. Premura anche quando mi invita a prendere un caffè o un aperitivo. Credo faccia parte del Suo patrimonio genetico. “Ma dov’è che corre?” mi chiedo spesso. Io starei ore al bar a chiacchierare e a sorbirmi lentamente il ben di Dio che il padrone del bar mi mette sempre sotto il naso, ormai a conoscenza del mio vorace e sano appetito. Tacito e complice.

E tanta e tale la gioia anche solo di salutarLo che affronto il caldo che, stamattina, giuro è davvero infernale.

Aperto il portone, una folata di caldo africano mi toglie il respiro. Raggiungo Roberto, giusto il tempo di attraversare la strada. Si è posizionato sotto un albero, sperando di vincere la calura insopportabile. “Ciao, bella…tieni” e mi porge una lisa carpetta in pelle logora e segnata dagli anni. “L’ho trovata tra una montagna di scartoffie”. Così chiama la mole di scritti e libri che fanno parte del vastissimo archivio personale ereditato dalla famiglia, la piu’ blasonata della città. Scartoffie che farebbero la felicità di studiosi e di amanti di storia patria. Un archivio disordinato ed affascinante. Ma così è…sorrido a tanta noncuranza “E’ proprio vero…Dio dà il pane a chi non ha i denti”. Gli dico e Lui al solito mi sorride. Ne è cosciente. Sarà lagnosia principesca? Forse…Do una rapido sguardo al contenuto. “Di cosa si tratta?” “Non lo so. Non ho testa per leggere. L’unica cosa che so è che tutto è stato scritto da mio zio Peppino. C’è altro ancora ma intanto leggi questo e dimmi cosa ne pensi.” Mi conosce bene, Roberto, anche se la nostra amicizia è giovane e la differenza d’età dovrebbe porci su piani diversi. O, forse, sono proprie le nostre differenze che, ad un certo punto, si intersecano e ci hanno portato ad essere “amici del cuore”.

Con la Sua solita premura, come se qualche spiritello maligno lo inseguisse, mette in moto e dopo un rapidissimo saluto mi lascia con un “Buona lettura, Silvietta!”.

Ritorno sui miei passi. Aperta la carpetta, dopo essermi guadagnata uno spazio lontano da occhi indiscreti nella deserta, data l’ora, redazione giornalistica… vi ritrovo una considerevole quantità di scritti e mi accorgo, con un veloce colpo d’occhio, che trattasi di riflessioni (come una splendida e sofferta “Lettera a me stesso”) o di pieces teatrali. Alcune a firma di Vincenzo D’Acate…saprò in seguito trattarsi dello pseudonimo del nostro Peppino, altre a firma di G. Paternò Castello laddove G. sta per Giuseppe…ma, comunque, sempre di Giuseppe Paternò Castello, XII Principe di Biscari si tratta.

Il nipote, nel trasferire quei incartamenti nella mia disponibilità, mi ha detto di non aver letto nulla di quanto mi consegnava ed anzi era certo che nessun altro avesse mai letto quelle carte. Comincia a venir su una sorta di inquietudine non meglio identificata.

L’impressione, man mano che scorro velocemente le pagine, è quella di veder materializzare quest’uomo…l’Autore. Come se qualcuno “Io, oddio!” avesse aperto la porta dell’oblio in cui la morte, avvenuta nel 1980, aveva relegato la Sua anima inquieta.

La sensazione mi spaventa e mi esalta, al tempo stesso. E’ mattina e, fino a tardo pomeriggio, avrò da lavorare sodo. Richiudo la carpetta ed avverto un lamento, quasi claustrofobico. Peppino non ci sta ad essere nuovamente rinchiuso, vuol prendere aria. E comincia a darmi il tormento…

E’ con grande celerità che, quel giorno, macino lavoro su lavoro così da poter rientrare a casa e “liberarLo”.

 

E’ sera. Smorzo le luci, il che mi riconcilia sempre la lettura che non può essere consumata alla luce fredda di un moderno neon. Creo l’atmosfera giusta, insomma e comincio il mio viaggio di avvicinamento a Peppino.

Tra i tanti scritti, vado alla ricerca di quello che maggiormente ha richiamato la mia attenzione ed eccolo apparire…piu’ voluminoso ed articolato degli altri. Il titolo “Cani impagliati”. E’ una trasposizione teatrale della vita di un gattopardo siciliano, molto simile e diverso dal Principe Salina di Tomasi di Lampedusa e che prende le mosse nei locali austeri dell’Amministrazione del Principe di Benticò laddove fanno iniziale irruzione due ufficiali giudiziari, con il compito di fare l’inventario di ogni singolo bene mobile e pignorarlo in conseguenza dei gravi problemi finanziari del protagonista.

Grande e tale è la capacità descrittiva ed evocativa dell’Autore che mi ritrovo in quegli spazi, abito quelle stanze…quelle atmosfere…”posseduta” da quel Peppino che mi osserva, comodamente seduto di fronte a me, e mi osserva con un sorriso, appena accennato, che Gli solleva simpatici baffetti.

Lo immagino, Lo vedo e non mi sorprende, pertanto, guardarne – per la prima volta – l’immagine che l’indomani mi restituisce lo schermo del computer. Su mia sollecitazione, Roberto mi manda una foto per email. E’ Lui, lo riconosco. Il nostro è stato un incontro molto intimo, passionale. E’ entrato nella mia vita nella maniera piu’ intima. Attraverso i Suoi scritti. Non ci può essere nudità piu’ sfacciata di quella che si ritrova nei pensieri vergati in bella grafia su un foglio, pensieri affidati a personaggi che, ai piu’ distratti – non a me – potrebbero sembrare frutto di fantasia.

E così incontro un tale e mi appresto a conoscerLo meglio e sicuramente in maniera piu’ intima di quanto fatto, probabilmente, da chi l’ha conosciuto. A me tocca il supremo piacere di conoscerne le fantasie.

Tocco con mano la voglia di libertà di chi, “costretto” dal proprio status, sogna di inventarsi una storia diversa…un finale che Lo sciolga dagli errori del passato ma che ricade negli stessi errori, vittima consapevole ma incapace di reazione. Schiavo di un ruolo lontano anni luce dal Suo reale sentire. Un cane impagliato a guardia di posizioni difficili da proteggere ma anche da rinnegare…un pittore che, attraverso le proprie tele, cerca di dipingere la propria realtà con colori diversi.

E mi ritrovo persa tra quei fogli…tra quelle storie …immaginandone l’Autore all’atto di scriverle, percependone i Suoi umori, la Sua calma rassegnazione. E lo sento vicino e cerco di immaginarmelo, anche fisicamente. Per il resto sento che il mio interesse a ciò che ha vergato su quei fogli ingialliti dal tempo lo sorprenda…lo risvegli dal lungo sonno…lo richiami in scena prima che il sipario si chiuda definitivamente ed il Suo ricordo svanisca.

E mi ritrovo a pensare che, forse, proprio con questi scritti Lui stesso pensasse di allontanare l’ombra dell’oblio e che questa mia sana curiosità lo faccia sorridere per questo Suo inaspettato ritorno sul palcoscenico della vita. Anche solo per il tempo che dedicherò alla lettura di tutto il materiale…anche solo per un attimo.

Sarà così…o no? E chi può dirlo? Intanto, una cosa è certa… Peppino è tornato, attraverso il Principe di Benticò, ed io cercherò di mantenerlo in vita il piu’ possibile.

Che senso avrebbe avuto risvegliarLo dal Suo lungo sonno altrimenti…

E’ Lui stesso, Peppino, che non mi da pace. Il mio cervello non mi da pace. Roberto, inconsapevolmente, non mi da pace. Alla conoscenza dello zio, anzi, aggiunge particolari che me lo rendono ancora più simpatico e degno di attenzione.

Me lo descrive “Alto, magro e di bell’aspetto. Privo, però, di una qualsiasi forma di praticità, succube di se stesso prima ancora che dei Suoi fratelli, Alvaro ed Agata. Una vita, la Sua, segnata da un grande amore per una donna bellissima, sposata ad uno dei nomi piu’ antichi della nostra città. Come Lui d’altronde. Amore ricambiato, risaputo, ma tenuto sul filo della decenza sociale. Finì che non si maritò e riversò, ben presto, su di me l’eredità di Principe. A me che ero il nipote piu’ grande, figlio di Suo fratello Ignazio. Repubblicano piu’ per snobbismo che per convinzione, era relativamente povero. Coltissimo, simpatico, stravagante nel vestire, portava sempre vestiti lisi, consunti direi, ma sempre puliti. In definitiva riusciva ad essere antesignano del casual. Teneva – continua – contabilità precise quanto inutili…libri mastri e pizzini. Detto questo, conclude, qui si esaurisce la mia percezione dello zio Peppino…”.

Ciò che ho saputo mi basta e mi convince che ho bisogno di aiuto per riportare “in vita” Peppino e con Lui… i Suoi scritti.

 

In questo mio menage d’amorosi sensi, faccio di tutto per far entrare un caro amico calatino.. scrittore di grande temperamento e così, cogliendo un’occasione che me lo fa incontrare a Catania, consegno a Domenico Seminerio il manoscritto con un biglietto “Carissimo Mimmo, solo un Tuo autorevole parere. Io l’ho trovato bellissimo…un Gattopardo versione Sicilia Orientale. Tante e troppe, a mio modesto avviso, le similitudini con “Il gattopardo” di Tomasi di Lampedusa. Buona lettura. Silvia P.S. L’idea sarebbe quella di pubblicarlo. Cosa ne dici di farLo rivivere ‘sto Principe?”

La speranza è che Lui, da sempre interessato ai misteri della Sicilia, si ponga la domanda madre che mi frulla in testa da quando ho letto il manoscritto e che non oso porre neppure a me stessa. E’ Biscari che ha copiato Tomasi o è il contrario? La Sua analisi arriva puntuale e con essa anche il dubbio che, però, a primo acchito non è possibile dirimere in mancanza della data esatta di stesura dell’opera del principe catanese.

Con Mimmo inizia un “balletto” che si perfeziona nello scambio di varie email di approfondimento delle nostre personali impressioni e, facendo Sue alcune mie osservazioni, Seminerio -in conclusione – mi invia quanto segue che, a titolo di cronaca, ha trovato spazio in uno degli ultimi numeri de “I Vespri”, versione cartacea. L’idea, quella mia e quella di Mimmo, era ed è quella di far innamorare della questione più gente possibile. Seminerio rilancia ed auspica che l’opera venga rappresentata in teatro:

“Cani impagliati” è un inedito e finora sconosciuto dramma in tre atti, scritto in data imprecisata ma probabilmente agli inizi degli anni 50, da Giuseppe Paternò Castello, Principe di Biscari. E’ il lavoro letterario di un altro principe siciliano che si cimenta con la scrittura, un dramma stavolta, o forse meglio un’azione teatrale, né tragedia né commedia, ma “serio” nella trattazione e nella conclusione. Un altro Principe, dopo Tomasi di Lampedusa, ma della Sicilia Orientale, con tutto quello che comporta in termini di differenze umorali e di filosofia di vita che, diciamolo subito, appare piu’ solare, piu’ aperta alla modernità, piu’ attenta alla vita della collettività, piu’ legata ai valori della religiosità pur non essendo bacchettona ed anzi larvatamente, se non apertamente, anticlericale.

Un dramma, dunque, ambientato nella Catania della fine dell’800, così ricca di fermenti nuovi da portare alla rivoluzionaria, per i tempi, sindacatura di De Felice. In questo contesto di vecchio e di nuovo, di antiche albagie e di slanci verso un futuro le cui parole d’ordine sono ancora quelle della rivoluzione francese, ovvero uguaglianza e fratellanza, con l’esplicito riconoscimento che senza fratellanza non ci può essere vera uguaglianza, si muove il protagonista, il principe di Benticò.

E qui non si può non avere un sobbalzo di sorpresa: Bendicò è il nome notissimo, malgrado la differenza della “t” e “d”, la cui pronuncia è sempre incerta nella parlata siciliana, per essere quello del cane del principe di Salina, protagonista de “Il gattopardo”. La sorpresa aumenta se si rileggono alcune righe dell’ultimo capitolo de “Il gattopardo”, che mi prendo la libertà di citare “Se si fosse ben guardato nel mucchietto di pelliccia tarlata si sarebbero viste due orecchie erette, un muso di legno nero, due attoniti occhi di vetro giallo: era Bendicò, da quarantacinque anni morto, da quarantacinque anni imbalsamato, nido di ragnatele e di tarme” Ed ancora, proprio nelle ultime righe del romanzo “Mentre la carcassa veniva trascinata via, gli occhi di vetro la fissarono con l’umile rimprovero delle cose che si scartano…Pochi minuti dopo quel che rimaneva di Bendicò venne buttato in un angolo del cortile che l’immondezzaio visitava ogni giorno: durante il volo la sua forma si ricompose un istante…Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida” E “Cani impagliati” è il titolo che il principe catanese ha dato al Suo dramma. Coincidenze? Segrete alchimie d’un linguaggio comune? O, in fondo, una questione che si presenta con una inquietante evidenza: è Lampedusa che ha preso spunto da Biscari o Biscari che ha preso spunto da Lampedusa? In attesa di chiarire l’anno di composizione de “Cani impagliati” e la sua circolazione tra lettori amici, non resta che registrare la coincidenza. Per non dire che un racconto di Tomasi, che anzi doveva essere il primo capitolo di un romanzo mai scritto, ebbe come titolo “Gattini ciechi”, con il ricorso, ancora una volta, al mondo degli animali domestici per palesi metafore. C’è di piu’.

Il secondo atto di “Cani impagliati” si svolge al circolo dei nobili, con diversi personaggi che discutono dei fatti del giorno, della situazione politica ed economica, del programma del sindaco De Felice. Naturalmente su ogni cosa ci sono opinioni diverse, ma sostanzialmente i presenti si dividono in due categorie: i tradizionalisti, sia pure con caute aperture umanitarie, e i novatori, sia pure, con qualche riserva sull’egualitarismo socialisteggiante. Discorsi soliti, come si facevano al tempo in tutti i circoli e in tutte le riunioni di nobili e galantuomini e che ritroviamo in molte pagine letterarie e di cronaca. Orbene. Anche in “Gattini ciechi”, dopo una iniziale presentazione dell’arricchito di turno, Don Batassano Ibba, un “quasi barone”, come è definito con malcelato scherno, l’azione si sposta al circolo dei nobili, dove s’accende la discussione sulle sue subitanee ricchezze, sulle sue non tanto presunte rozzezze, sui suoi sfarzi pacchiani di neoricco.

Nei “cani impagliati”, in modo analogo, la discussione si sposta su Vincenzo Masiani, che passa sotto le finestre del circolo con una luccicante carrozza tirata da magnifici cavalli. E’ il nuovo che avanza, il capitalismo che si fa strada con determinazione ed appena edulcorata arroganza, spesso incurante degli antichi valori che hanno dato sostanza al vivere civile. I prototipi di questa nuova classe dominante, di questa nuova umanità, di questo spregiudicato capitalismo alla siciliana sono, negli scritti dei due principi, Calogero Sedara e Vincenzo Masiani, entrambi legati alla tipologia del Mastro Don Gesualdo verghiano. Tutti e tre i personaggi sono presentati come esponenti di una mentalità mercantile, per la quale ogni cosa ha un suo prezzo inespresso in denaro sonante, che detta la nuova scala dei valori; un capitalismo nuovo, ma pur sempre legato alla zolla, alla terra, al mondo ancestrale dei contadini e dei pastori, che vengono assoggettati ad una diversa ma non per questo migliore, forma di sfruttamento. Coincidenze, dunque, negli scritti dei due principi, accomunati dalla coscienza della crisi della loro classe sociale e della fine di un’epoca durata mille anni. Torniamo a “Cani impagliati”: non è stato mai pubblicato né è mai stato rappresentato: ne è restato un unico esemplare in 67 cartelle dattiloscritte che ho letto per la cortesia di Roberto Paternò Castello Principe di Biscari e su sollecitazione dell’amica Silvia Ventimiglia. Veniamo alla trama. Nel primo atto, ambientato nello studio del Principe, arrivano gli uscieri per procedere al sequestro dii tutti i beni del nobiluomo, in grave dissesto finanziario per alcuni investimenti sbagliati. Attraverso i dialoghi con vari personaggi emerge la personalità del Principe, distaccato e pensieroso, assillato sia dai debiti sia dall’odio senza scampo che contro di lui nutre Rossana, la figlia di primo letto, sposata col borghese Duval.

Nel secondo atto la scena si sposta all’interno del circolo dei nobili, dove si dibattono le questioni già dette. Compare anche il principe, di ritorno da Parigi, dove ha assistito il vecchio padre, che era fuggito nella capitale francese in volontario esilio dopo la caduta dei Borbone. Il principe, che ha ricevuto parte dell’eredità paterna ed ha potuto dare una sistemazione ai suoi guai finanziari, appare ancora legato ai vecchi schemi sociali e politici talchè si oppone vanamente all’ammissione al circolo di Vincenzo Masiani, che sfoggia con gioiosa sicumera la ricchezza da poco acquisita.

Nel terzo atto, ambientato nel giardino del Principe, ormai vecchio e malato, subisce l’ultimo affronto della implacabile figlia, che riesce ad annullare la nomina a senatore del padre. In un imprevisto e drammatico colloquio tra padre e figlia, alla presenza di un ambiguo sacerdote, emerge il perchè del rancore senza scampo della ragazza: il principe ha abbandonato la prima moglie, si è unito con una borghese da cui ha avuto il figlio Alvaro, si è praticamente disinteressato della sorte di Rossana. A nulla servono le deboli giustificazioni del Principe, che vorrebbe far valere le ragioni del cuore e del sentimento sulle rigide, e interessate, ragioni di casta e di tradizioni, apoditticamente difese dalla ragazza. Quello scontro tra padre e figlia, in verità, è il motivo centrale dell’opera, il vero nucleo narrativo su cui l’autore ha concentrato la sua attenzione e su cui vorrebbe far convergere l’attenzione degli spettatori, pur facendo emergere con sufficienza chiarezza il quadro di un’epoca e di una mentalità. L’opera, va detto con estrema onestà, presenta qualche pregio letterario ed una discreta resa dei caratteri dei protagonisti, soprattutto quello del principe, che appare rassegnato al duplice attacco dei creditori e della figlia: un uomo gentile, sinceramente innamorato della sua compagna e del figlio, legato ai valori del decoro e dello spirito, ma incapace di dominare le nuove dinamiche sociali e politiche. A lui si contrappone la figlia, fasciata dal suo odio, incapace di comprensione e di perdono, che non si fa scrupolo di gridare il suo odio ed il suo rancore: un personaggio monolitico, senza ripensamenti di sorta, senza il beneficio d’un dubbio, d’un moto di umana comprensione per i sentimenti altrui. Gli altri personaggi, tra cui spiccano il Prof.Angelo Martorana, in cui è facile leggere Angelo Majorana, donna Agata, prima compagna e poi moglie, Padre Greco, sacerdote untuoso ed ambiguo, sono delineati sobriamente, in punta di penna si direbbe, ma risultano coerenti e ben inseriti nell’intreccio. L’azione scenica risulta un po’ lenta, ma i dialoghi sono scorrevoli, sostenuti da una lingua che, pur nella sua ricercata semplicità, cerca di adeguarsi alle diverse personalità dei personaggi. In conclusione mi pare di poter dire che “Cani impagliati” è un’opera che ha il merito di aggiungere un tassello alla conoscenza di un’epoca e di uno snodo sociale e politico di primaria importanza: la fine di una classe sociale e di un millenario modo di vivere e di intendere la vita.” DS

 

Il giudizio, squisitamente letterario di Mimmo Seminerio, mi fornisce spunti per la comprensione dell’uomo Biscari che è parte della mission che mi sono proposta, in quella afosa e caldissima mattinata di agosto di due anni fa, quando è entrato nella mia vita ed ha cominciato a darmi quel tormento che ancora oggi non si placa. Non basta, però…non erano questi i patti tra me e Peppino. Gli avevo promesso nuova vita e nuova vita dev’essere altrimenti mi condannerà al tormento eterno!!!!

Dopo un periodo di apparente calma, improvvisamente mi torna in mente – in una sorta di flashback – una frase che ha attraversato il mio cervello, senza che allora, lasciasse traccia ma che, oggi, a distanza di ben due anni mi torna in mente…“Silvietta, a parte che Te, e mio zio che l’ha scritto, non credo che qualcun altro abbia mai letto quanto Ti consegno”.

Mi illumino in un sorriso senza confini…mi pare di ricordare un foglietto – vergato a mano – custodito all’interno del manoscritto. Ne sono certa, come ho fatto a non attenzionarlo? Mi sovviene, tra l’altro, di averlo usato come segnalibro nelle brevi pause di quella lettura notturna, di due anni fa. E’ firmato da un tale o una tale Vicky…la bella grafia mi fa propendere per una mano femminile ma potrebbe non esserlo. Vicky, su sollecitazione dello stesso Biscari a dire la Sua sulla piece, Lo avvisa di aver riscontrato un errore di opportunità nella stesura e lo invita a cassare una frase che Lui, accogliendo il consiglio, cassa.

Rintracciare questo/a Vicky è la successiva tappa di questo mio virtuale viaggio alla ricerca di Peppino. E’ una testimonianza che potrebbe farmi venire a capo dell’anno di stesura di “Cani impagliati”. Il nipote taglia corto…”Non saprei proprio!” E, conoscendoLo so che non spenderà un solo minuto della sua giornata per venire a capo della questione, preso com’è – così come il protagonista della pieces dello zio – da affannosi problemi quotidiani. Una novità, quella sì, me l’ha comunicata e che aggiunge un tassello a questo puzzle che stenta ad essere completato…Biscari e Tomasi si conobbero! Di Loro si ricorda un breve soggiorno – nella medesima casa – a Taormina, perla dello Jonio. Si scambiarono opinioni, parlarono dei Loro progetti letterari…chissà! Domande tutte che, al momento, non hanno risposte.

 

Poi, non so…ed è storia di questi giorni…sarà stato Peppino, che immagino arrabbiato con me che ho risvegliato il Suo sonno per non arrivare a nulla, ma ad un tratto compare nella mia vita il maestro Luca Caviezel alla cui famiglia è legata la storia di Catania. Cosa c’entra Lui con questa vicenda? Nulla, direttamente, ma qualcosa mi dice che possa mettermi in contatto con questa Vicky che credo proprio essere… una donna. Destinazione…una segreta, al momento, località della Sicilia Occidentale.

Ed il mio viaggio continua…

Alla prossima!

Silvia Ventimiglia Agosto 2012/Settembre 2014

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