C’era una volta…ma esiste ancora il Giardino Bellini?

Quello che resta della cosiddetta “Villa Bellini”, polmone verde di Catania e “posto delle fragole” per tante generazioni di catanesi.

C’era una volta e ora non c’è piu’!

Parlo del Giardino Bellini, semplicemente ‘a Villa… per noi catanesi.

Non c’è piu’ come luogo d’incontro, agorà dove il catanese dava libero sfogo alla propria teatralità, come luogo dell’anima per intere generazioni, come quel “posto delle fragole”raccontato da Ingmar Bergmann in cui trovare e coltivare la propria età dell’innocenza.

Con esso è sparito anche il catanese ironico, spensierato, festaiolo ma anche custode della propria storia. Oggi solo arrabbiato per le continue prese in giro di una classe politica incapace di progettare il futuro ma, cosa ancor piu’ grave, di conservare la memoria. Una memoria fatta di Storia con la S maiuscola mista a cultura e tradizione. Ma così è…e può capitare di sentire voglia di “ritrovarsi”, di trovare un antidoto al crescente e costante ammalarsi del proprio entusiasmo, e di andare alla ricerca di quello che si era quelle domeniche, di decenni fa, quando il mondo pareva condensarsi in quello spazio quasi fiabesco che era la Villa. Ricerca che risulta disattesa perchè quella…Villa non esiste piu’,dicevo. Resiste solo il Suo ricordo romantico, custodito in ciascuno di noi, e che, come tale, va preservato dall’usura del tempo e, ove possibile, provare a trasmetterlo a chi – per ragioni d’età – non ha potuto godere di quelle atmosfere, di quei colori e di quegli odori che sapevano di zucchero filato e mele caramellate.

Il ricordo è impresso nelle immancabili foto che riempiono gli album fotografici di tantissime famiglie catanesi. Foto che ci ritraggono seduti sui bordi di quella magnifica vasca prima abitata da bianchi cigni reali, poi da piu’ nostrane papere fino, all’ultimo sfregio, diventando dimora di orribili trampolieri stilizzati in ferro battuto. Ci si giustifica dicendo che i poveri animali, di notte, diventavano preda di balordi o di branchi di cani randagi mentre sarebbe bastato giustificare lo stipendio di qualche impiegato comunale da adibire a sorveglianza la notte. Sarebbe bastato questo ma tant’è…

Una cultura, quella che trasuda oggi attraversando quei viali che ci hanno visti festanti bambini, affinata da studi nelle migliori università europee – probabilmente – ma una cultura senza…cuore. E ditemi se è poca cosa!

La nostra infanzia era popolata, come nelle fiabe e com’era giusto, da pavoni che facevano bella mostra di sé e di scimmie come il popolarissimo Gino che, data la Sua bruttezza da babbuino, divenne il simbolo dell’essere brutto. Lariu come Gino ra Villa, per l’appunto. Poi venne la volta del pellicano e dell’elefante indiano regalato, a fine carriera, alla città dal circo Orfei. E così noi catanesi potemmo realizzare il sogno di avere il nostro stemma araldico in carne ed ossa.

Quanti bambini della mia generazione, quella del 62, ricordano l’effetto destabilizzante che ebbe la notizia – data dal gazzettino radiofonico – della morte di Tony, l’elefante per il quale la domenica ci riempivamo le tasche di pane e di noccioline per aiutarlo a superare quella nostalgia che si diceva avesse per il circo dal quale proveniva e che noi bambini riuscivamo a leggere nei suoi grandi occhioni. Tony fu maestro per noi di quella grande qualità che dovrebbe nutrire tutti gli uomini, la comprensione e l’afflato per un altro essere vivente.

Mi ritrovo, piccolissima…sarà stato il 66 o giu’ di lì, in cucina seduta a gustarmi una colazione che parla di latte, uova e biscotti fatti in casa. “I bambini catanesi a lutto…” diceva pressappoco così il commentatore “E’ stato trovato morto Tony!”. Ricordo che la notizia ebbe l’effetto di una bomba che faceva deflagrare il castello dell’infanzia. Fine della partita.

Fu il mio, il nostro, il primo grande dolore che ci accomunava ed il cui ricordo ci dona una sorta di appartenenza, di identità culturale. Le nostre tasche rimasero piene di quelle noccioline. Forse, speravamo che Tony tornasse come nelle fiabe. Ma così non fu. Nel corso della vita avremo sicuramente trovato a chi darle, ne sono certa, ma sono altrettanto sicura che non fu mai piu’ la stessa cosa. Per nessuno di noi. Tra noi e Tony era una rapporto esclusivo come tutti i grandi amori. Ed il fatto che a distanza di 50 anni il dolore e lo sgomento per quella perdita fa ancora capolino ci dice che è stato così.

Oltrepasso lo spazio centrale, occupato dalla grande vasca, e mantenendomi sulla sinistra raggiungo il posto dove era tenuto Tony. E’ ancora lì e basta solo recuperare un po’ di quella fantasia infantile per rivederselo davanti, imponente e mai aggressivo. Sempre pronto a porgerTi la proboscite ghiotto di leccornie varie. Visse poco Tony. Si disse che morì di nostalgia ma forse fu solo che non riuscì ad abituarsi a quella solitudine che neppure le schiere di bambini che andavamo a fargli compagnia la domenica siamo riusciti a lenire.O, forse, era solo anziano. Chissà…

Cerco le scritte floreali che campeggiavano ai lati della collinetta. Chiudo gli occhi e li riapro sperando di vederle. Niente,mi dicono che tutti quei richiami alla nostra identità, tanto amata e sbandierata, non esistono piu’. Nè la scritta “Giardino Bellini”così come l’Elefante simbolo della città, la A di Sant’Agata o anche di Athena (la Trinacria)…niente di niente. Scomparse anche le chiavi di violino e le note di Bellini che fungevano da frangiflutti rispetto ai rumori delle vie circostanti.

Ridiscendo verso destra e raggiungo da sopra il piazzale da sempre dedicato al gioco dei bambini. Un rumore lontano di ferro non oleato mi riporta al su e giu’ dei miei piedini a velocizzare la corsa con le macchinine o con le aurighe trainate da buffi somarelli rossi in plastica che, per poche monete, potevamo utilizzare tutti. Mezzi di locomozione che oggi esistono solo nelle foto in bianco e nero di ogni famiglia. Ricca o povera, non importava. Si era bambini tutti allo stesso modo. La Villa, in tal senso, era bipartisan…esempio giocoso di democrazia applicata alla quotidianità. Si godeva delle stesse cose senza distinzione di classe o di averi. Tutti potevamo godere delle stesse cose. Era un mondo ovattato dove eravamo cullati dall’affetto per gli animali, dal divertimento anche solo di correre lungo i viali o il passaggio immancabile sulla bilancia che ci restituiva un cartoncino con su la figura di un animale che, in base al nostro peso, ci identificava. Si passava dalla farfalla all’ippopotamo ed erano grandi ed innocenti risate! Anche la bilancia era tarata a misura di bambini come tutto alla Villa Bellini. Anche gli sfregi perpetrati ai danni delle statue degli uomini illustri, posizionate nell’omonimo viale, non avevano nulla dell’accanimento di cui sono oggetto oggi le statue di coloro che hanno fatto grande Catania. Al massimo si trattava di baffi a manubrio disegnati con un pennarello che, con un po’ di buona volontà, venivano rimossi o un occhio nero a simulare un’aggressione che, purtroppo, oggi ha i connotati di veri e propri colpi inferti ad offendere e ad offuscare un passato che dovrebbe, di contro, essere protetto e difeso. Da ma chi e da cosa? Dall’ignoranza, dal pressapochismo, dall’incuria colpevole. Da una memoria corta.

Guadagnando l’uscita e prossima a scendere verso l’ingresso principale, quello che porta a Via Etnea, mi giro sconsolata. E’ un rapido colpo d’occhio a ciò che non è cambiato. Il tempo alla Villa è scandito sempre dal calendario in erba e dall’orologio floreale. Ci dice oggi come ieri che è il momento di tornare a casa. Una casa diversa…però. Diversa perchè diversi siamo noi. Meno festaioli, meno ironici e meno catanesi. E l’età, mi sorge il dubbio, non c’entra con il cambiamento. Uscendo, mi ritrovo a pensare a quell’Ignazio Paternò Castello, Principe di Biscari, di cui la Villa era parte della propria proprietà privata (Il Labirinto Biscari, per l’appunto) e che, da mecenate quale fu, fece di tutto per trasformarlo nel piu’ bel giardino d’Europa e che,poi nel 1854, un’accorta Amministrazione comunale pensò bene di acquistare per metterlo nella disponibilità della collettività. Perchè ne godesse nella speranza, ne sono certa, che lo scandire del tempo non declinasse la decadenza di una città che era sinonimo di storia, cultura, tradizione. Era…appunto! E se queste mie riflessioni riportano nell’incipit la frase con cui cominciano tutte le favole del mondo, l’augurio è che un giorno io possa rettificare l’attuale finale con un benaugurante “E la Villa tornò agli antichi splendori e vissero tutti felici e contenti…”. Ma questo, per il momento,non è proprio possibile scriverlo.

Alla prossima!

Silvia Ventimiglia – Marzo 2013

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